Mercanteinfiera

I FORTI FORTISSIMI DI MERCANTEINFIERA. STORIE DI VITA

I forti fortissimi di Mercanteinfiera. Storie di vita

 

La montagna gentile - Primo Carnera

Friulano di Sequals, classe 1906, è stato pugile, lottatore e attore cinematografico. Di famiglia poverissima, emigrò in Francia dove lavorò come muratore prima e poi come fenomeno da baraccone in un circo. La sua potenza smisurata lo dirottò verso il pugilato: combatté a Parigi, in Germania e in Inghilterra. Poi il grande salto: gli Stati Uniti. Nel '29  raggiunse la celebrità diventando il primo italiano campione del mondo nella boxe piegando a New York, nel 1933, il campione Jack Sharkey per ko alla sesta ripresa. La sua fama esplose al di qua e al di là dell'oceano: era un omone di 120 chili alto 197 centimetri, peso massimo soprannominato “la montagna che cammina” per la sua stazza imponente. Un gigante sì, ma dall'animo gentile, che divenne amico fraterno del suo più acerrimo rivale: il basco Paulino Uzcudun, battuto nella difesa per il titolo a Piazza di Siena a Roma davanti a 60mila spettatori. Ad assistere al match, tra il pubblico esultante, c'era Benito Mussolini che lo volle con lui, più tardi, al balcone di piazza Venezia. Perso il titolo nel '34 per mano dell'americano Max Baer, Carnera fu reclutato dal cinema sia Hollywood sia in patria perché la sua popolarità trascendeva l'aspetto sportivo. Fu ospite di Mario Riva ne Il Musichiere, programma televisivo di enorme successo dove si esibì come cantante; un manifesto dell'epoca lo vide pubblicizzare la macchina di cucire Necchi, portata nella casa di tutti gli italiani; viaggiò in tournée con Renato Rascel. Aprì in America un ristorante e un negozio di liquori e l'agiatezza faticosamente conquistata gli consentì di far studiare i due figli in prestigiosi college degli States. Lasciò la boxe a 41 anni, ma risalì sul ring per intraprendere la carriera di lottatore. Dopo aver girato il mondo da celebrità nei decenni successivi, abbandonò definitivamente il quadrato e gli Stati Uniti dove aveva preso la cittadinanza. Fece ritorno in Italia solo poche settimane prima di morire nel 1967, minato dal diabete e dalla cirrosi: aveva 61 anni. E' rimasto un mito ovunque, paradigma di forza nella cultura di massa e nell'immaginario collettivo. La villa liberty che fece costruire a Sequals, dove tutto era cominciato, è tuttora un frequentatissimo museo a lui dedicato.

 

L’eleganza sul ring - Nino Benvenuti

Nato nel 1938 a Isola d'Istria, è un ex pugile, attore, commentatore sportivo, giornalista e scrittore. Ha vissuto il dramma della sua terra passata nel dopoguerra alla Jugoslavia, un dolore che popola ancora le sue notti: esule a Trieste si è sempre portato dentro l'incubo della repressione titina, con i risvolti tragici che hanno coinvolto in maniera brutale il fratello e la madre. L'ascesa nella boxe, disciplina a cui lo aveva avviato da ragazzino il padre, è stato il suo orgoglio e la rivincita sull'ingiustizia. Dentro il ring era uno stilista magnifico, tanto che il suo pugilato fu paragonato a un'opera d'arte. Campione precoce nei dilettanti è stato medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma nel 1960, eletto dagli esperti miglior pugile del torneo davanti a Cassius Clay (diventato poi Muhammad Ali). Passato professionista, conquistò il titolo mondiale dei pesi medi battendo al Madison Square Garden di New York - tempio della boxe - l'avversario di sempre Emile Griffith, il nero delle Isole Vergini, diventato più tardi l'amico che Nino risollevò generosamente dalla miseria. “Ha la lingua lunga ed è bello da far schifo”, scrissero di lui i giornali americani. Pelle bianca, ciuffo sulla fronte, faccia da attore, alto, sempre elegante in pantaloncini corti come in smoking, croce di spalle da far paura: Benvenuti si era presentato da showman, colpendo allo stomaco i rotocalchi, le tv e il pubblico maschile e femminile dall’altra parte dell’oceano. Il 17 aprile 1967, notte dell'incontro, si calcola che 18 milioni di radioascoltatori italiani seguirono in diretta il match raccontato da Paolo Valenti, oltre a centinaia di italo-americani trepidanti in platea. Quella notte resta incisa nella memoria di un'intera generazione. Il ritorno in patria fu trionfale: enormi folle acclamarono il campione a Roma, Milano, Bologna e soprattutto a Trieste, dove Benvenuti aveva trovato riparo nell'esodo dalla amata Istria, l'Isola che per lui non c'era più. Nino divenne un eroe nazionale ed è tuttora popolarissimo negli Stati Uniti, dove combattè altre due volte contro Griffith. E memorabili restano gli scontri con l'altro grande avversario: il toscano Sandro Mazzinghi. Fu detronizzato dall'indio-argentino Carlos Monzon quando la sua carriera cominciava a declinare. Ma la popolarità non è mai stata intaccata dagli ultimi verdetti amari del quadrato: protagonista Benvenuti è anche adesso, a 84 anni, più di mezzo secolo dopo quell'impresa indimenticabile.



Il meticcio che sfidò il Duce - Leone Jacovacci

Nato a Sanza Pombo (oggi Angola, al tempo parte del Congo)  nel 1902, è stato un pugile italiano. Mulatto. La sua vita è un romanzo. Il padre era un ingegnere romano emigrato in Congo, la madre era la figlia di un capo tribù. Allevato in Italia dalla famiglia paterna, irrequieto, stanco dei pregiudizi razziali subiti sulla pelle, si imbarcò a Taranto come mozzo e arrivò in Inghilterra dove nel 1919 sotto nome fasullo di Jack Walker ( in omaggio al fuoriclasse statunitense Jack Dempsey)  esordì  nella boxe. Vinse moltissimi incontri lì e soprattutto in Francia (14 vittorie e un pari su un totale di 21 incontri): i suoi pugni lasciavano il segno, erano l'arma per conquistare uno spazio importante nel mondo. Si dimostrò così uno dei migliori pesi medi del suo tempo. Inseguendo gli ingaggi ovunque capitasse, attraversò l'oceano per salire sui ring di Buenos Aires. Tornato in Italia acquisì la cittadinanza e nel 1928 a Roma, al centro dello stadio nazionale traboccante di folla (oltre 40mila persone assistevano al match), conquistò il titolo europeo ai danni del milanesissimo e italianissimo Bosisio. Un nero che batte un bianco, un italiano meticcio che avrebbe dovuto rappresentare la Nazione nel mondo: il regime fascista non poteva tollerarlo. Jacovacci fu osteggiato e oltraggiato. Lasciato solo. I riflettori si spensero quasi subito, per colpa del distacco della retina riportato durante un combattimento: per campare passò al catch frequentando, una sera dopo l'altra, i ring scalcagnati della provincia. Morì d'infarto nell'83 a Milano, custode in una scuola, vecchio e stanco. Dimenticato da tutti. A ripescare la sua malinconica avventura dagli archivi è stato l'antropologo culturale e sociologo Mauro Valeri, prematuramente scomparso: il suo libro Nero di Roma ha restituito la meritata dignità all'invincibile mulatto italico. L’opera, diventata un docufilm, diretta dal regista Tony Saccucci e intitolata Il pugile del Duce, viene proiettata nell'aula del Parlamento Europeo nel 2017. Una sorta di risarcimento postumo completato dalla casa di produzione Palomar (la stessa della serie Il commissario Montalbano), che ha acquisito i diritti per girare un lungometraggio su vita, morte e miracoli di Leone Jacovacci.



The living  legend - Bruno Sammartino

E’ sconosciuto in Italia ma rappresenta un autentico mito dello sport negli Stati Uniti. Nato nel 1935 a Pizzoferrato, un paesino abruzzese dell'entroterra, ultimo di sette fratelli, partito quindicenne con la nave come emigrante in Pennsylvania al seguito della famiglia, è diventato il campionissimo nella storia della lotta. Mai nessuno come lui. “Sammartino è stato il più grande di sempre, più grande del wrestling stesso”, ha detto di lui l'amico Schwarzenegger commemorandone la morte avvenuta il 18 aprile del  2018. E' stato il re del Madison Square Garden di New York. Il suo record è imbattuto e imbattibile: numero uno delle classifiche mondiali per 4.040 giorni. Quando perse il titolo, nel '71, l'arena rimase muta per dieci minuti: gli spettatori increduli non volevano tornare a casa, quasi fosse stato solo un brutto sogno. E pensare che Bruno era un ragazzino gracile, vittima dei bulli che gli rinfacciavano la sua italianità, tanto che la madre Emilia - “my hero” la definiva lui, perché si oppose ai nazisti sui monti nell'inverno nella guerra - lo spedì in palestra perché si irrobustisse e potesse difendersi da chi lo perseguitava. Finché un giorno, a Pittsburgh, l'impresario di una fiera lo avvicinò: “vieni a combattere nell'arena contro il mio scimmione, se vinci ti pago bene”. Sammartino non se lo fece ripetere, salì sul ring e stese l'orangotango con un pugno allo stomaco: "Intascai 50 dollari tutti in una volta, da muratore ne prendevo due al giorno. Capii che la mia strada era la lotta”. Divenne invincibile. Lo chiamavano The living legend e The italian strongman: da Pizzoferrato a Pittsburgh, dalla roccia del borgo sperduto alla metropoli dell'acciaio, la sua fama crebbe senza pause. Springsteen e la popstar Bruno Mars sono stati suoi accesi tifosi. Anche perché Bruno predicava un wrestling tutto sostanza, fatto di più combattimento e meno show, e aborriva i lottatori gonfiati artificialmente dagli ormoni. La lotta al doping gli costò la diffidenza e l'ostracismo di un ambiente tanto più piccolo di lui, un uomo che volava sorretto dal tifo di tutte le minoranze etniche: se è riuscito a farcela partendo dal nulla, pensavano gli ispanici, c'è una speranza per tutti. Era la realizzazione dell'american dream, ma teneva stretto nel cuore il suo paese laggiù in patria. Così aveva voluto esserci a tutti i costi nel 2017, malgrado il cuore malandato e un delicato intervento chirurgico, all'inaugurazione della statua in suo onore: l'abruzzese forte e gentile era tornato a casa, appena in tempo prima di chiudere gli occhi per sempre.

Uploaded on 20/01/2023